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Dall'Unità d'Italia all'eruzione dell'Etna del 1991

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29 aprile 1982. Con Ordine di Servizio viene istituito, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Dipartimento della Protezione Civile. Nello stesso anno, la Legge n. 996 formalizza la figura del Ministro per il Coordinamento della Protezione Civile.

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La Legge n. 996 del 1970 disponeva che in caso di grave emergenza il Presidente del Consiglio dei Ministri potesse nominare un Commissario. Con la Legge n. 938 del 1982 viene formalizzata la figura del Ministro per il Coordinamento della Protezione Civile. La ratio di questa legge è quella di prevedere una sorta di “commissario permanente”, pronto a intervenire in caso di emergenza. In questo modo si evita che ogni volta debba essere individuato un soggetto diverso con il compito di costruire la “macchina organizzativa”.

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Il Ministro per il Coordinamento della Protezione Civile si avvale del Dipartimento della Protezione Civile, istituito sempre nel 1982, nell’ambito della Presidenza del Consiglio dei Ministri con Ordine di Servizio del 29 aprile. Invece di istituire un apposito Ministero, con una struttura burocratica e di pari rango rispetto agli altri Ministeri, si sceglie di creare un organismo snello, sovra-ministeriale, capace di coordinare tutte le forze di cui il Paese può disporre.

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Il Dipartimento della Protezione Civile raccoglie informazioni e dati in materia di previsione e prevenzione delle emergenze, predispone l’attuazione dei piani nazionali e territoriali di protezione civile, organizza il coordinamento e la direzione dei servizi di soccorso, promuove le iniziative di volontariato e coordina la pianificazione d’emergenza, ai fini della difesa civile. La protezione civile si muove ormai lungo quattro direttrici principali: previsione, prevenzione, soccorso, ripristino della normalità.

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Foto: Il primo Comitato Operativo, presieduto da Elveno Pastorelli, si riunisce il 7 maggio 1985 nella sede del Dipartimento della Protezione Civile in via Ulpiano a Roma

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Il Ministro per il Coordinamento della Protezione Civile si avvale del Dipartimento della Protezione Civile, istituito sempre nel 1982, nell’ambito della Presidenza del Consiglio dei Ministri con Ordine di Servizio del 29 aprile. Invece di istituire un apposito Ministero, con una struttura burocratica e di pari rango rispetto agli altri Ministeri, si sceglie di creare un organismo snello, sovra-ministeriale, capace di coordinare tutte le forze di cui il Paese può disporre.

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Il Dipartimento della Protezione Civile raccoglie informazioni e dati in materia di previsione e prevenzione delle emergenze, predispone l’attuazione dei piani nazionali e territoriali di protezione civile, organizza il coordinamento e la direzione dei servizi di soccorso, promuove le iniziative di volontariato e coordina la pianificazione d’emergenza, ai fini della difesa civile. La protezione civile si muove ormai lungo quattro direttrici principali: previsione, prevenzione, soccorso, ripristino della normalità.

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Foto: Il primo Comitato Operativo, presieduto da Elveno Pastorelli, si riunisce il 7 maggio 1985 nella sede del Dipartimento della Protezione Civile in via Ulpiano a Roma

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10 giugno 1981. Il piccolo Alfredo Rampi cade in un pozzo artesiano a Vermicino, nelle vicinanze di Roma. Tutta l’Italia si ferma per seguire i drammatici tentativi di soccorso.

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Il 10 giugno 1981 Alfredo Rampi, un bimbo di 6 anni, sta tornando a casa, nella campagna intorno a Frascati. È pomeriggio, pochi metri lo separano dall’abitazione dei nonni, ma non vi farà ritorno. Allarmati dal ritardo, i genitori iniziano le ricerche del figlio. Alle 21.30 decidono di chiamare la Polizia, che interviene sul posto con unità cinofile.

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Gli agenti localizzano il bambino intorno alla mezzanotte. I lamenti del piccolo Alfredo, per tutti Alfredino, provengono da un pozzo artesiano, coperto con un bandone di lamiera. Poco dopo arrivano da Roma anche i Vigili del Fuoco. Il pozzo è largo 30 centimetri e profondo 80 metri. Alfredino è bloccato a 36 metri. Subito si studia un modo per parlare al bambino, confortarlo, fargli capire che presto sarà libero. Viene calato nel pozzo un microfono. Per ore un Vigile del Fuoco cerca di tenere sveglio Alfredino e di non fargli perdere le speranze, raccontandogli storie e instaurando con lui un rapporto di fiducia.

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Per eseguire uno scavo, necessario per le operazioni di soccorso, occorre con urgenza una trivella per cui viene lanciato un appello attraverso le emittenti radio-televisive. Alle 8.30 la trivella è disponibile e prendono il via i lavori. Nel frattempo, nella sede Rai di via Teulada iniziano ad arrivare le prime immagini dei soccorsi, con la voce del bambino catturata dal microfono calato nel pozzo. In chiusura del Tg1 delle 13.30 il bambino sta per essere tratto in salvo, ma purtroppo il tentativo di soccorso fallisce.

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Il caso di cronaca locale, di cui si attende rapidamente il lieto fine, si trasforma quindi in un dramma partecipato, che si consuma sotto gli occhi di milioni di persone e stravolge i palinsesti per 18 lunghissime ore di diretta televisiva. L’emergenza di Vermicino tiene il Paese con il fiato sospeso, raccolto attorno a un lembo di terra dove i soccorritori provano il tutto per tutto per salvare il piccolo in una lunga sequenza di tentativi, in cui si alternano ottimismo e preoccupazione.

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Il 12 giugno arriva a Vermicino anche il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, ed è ancora lì, accanto ai familiari del bambino, per l’ultimo disperato tentativo di trarre in salvo Alfredino. Sono le 5.02 del 13 giugno quando uno speleologo si cala nel pozzo, raggiunge il bambino e tenta di imbracarlo. Ritenta. Fallisce ancora. Quando torna in superficie annuncia ai genitori, all’Italia, che Alfredino è morto.

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La tragedia di Vermicino segna una dolorosa e importante tappa nella nascita del moderno Servizio Nazionale, che parte dalla presa di coscienza dei limiti del sistema dei soccorsi e della necessità di un maggior coordinamento delle risorse coinvolte nella gestione emergenziale.

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Questa e altre emergenze – come il terremoto dell’Irpinia – alimentano il dibattito civile e culturale che porterà al superamento del vecchio assetto operativo e alla nascita, nel 1982, del Ministro per il Coordinamento della Protezione Civile e del Dipartimento della Protezione Civile, nell’ambito della Presidenza del Consiglio.

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Foto: Le operazioni di soccorso del piccolo Alfredo Rampi, caduto in pozzo artesiano nelle vicinanze di Roma il 10 giugno 1981 / Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco

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Il 10 giugno 1981 Alfredo Rampi, un bimbo di 6 anni, sta tornando a casa, nella campagna intorno a Frascati. È pomeriggio, pochi metri lo separano dall’abitazione dei nonni, ma non vi farà ritorno. Allarmati dal ritardo, i genitori iniziano le ricerche del figlio. Alle 21.30 decidono di chiamare la Polizia, che interviene sul posto con unità cinofile.
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\r\nGli agenti localizzano il bambino intorno alla mezzanotte. I lamenti del piccolo Alfredo, per tutti Alfredino, provengono da un pozzo artesiano, coperto con un bandone di lamiera. Poco dopo arrivano da Roma anche i Vigili del Fuoco. Il pozzo è largo 30 centimetri e profondo 80 metri. Alfredino è bloccato a 36 metri. Subito si studia un modo per parlare al bambino, confortarlo, fargli capire che presto sarà libero. Viene calato nel pozzo un microfono. Per ore un Vigile del Fuoco cerca di tenere sveglio Alfredino e di non fargli perdere le speranze, raccontandogli storie e instaurando con lui un rapporto di fiducia.
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\r\nPer eseguire uno scavo, necessario per le operazioni di soccorso, occorre con urgenza una trivella per cui viene lanciato un appello attraverso le emittenti radio-televisive. Alle 8.30 la trivella è disponibile e prendono il via i lavori. Nel frattempo, nella sede Rai di via Teulada iniziano ad arrivare le prime immagini dei soccorsi, con la voce del bambino catturata dal microfono calato nel pozzo. In chiusura del Tg1 delle 13.30 il bambino sta per essere tratto in salvo, ma purtroppo il tentativo di soccorso fallisce.
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\r\nIl caso di cronaca locale, di cui si attende rapidamente il lieto fine, si trasforma quindi in un dramma partecipato, che si consuma sotto gli occhi di milioni di persone e stravolge i palinsesti per 18 lunghissime ore di diretta televisiva. L’emergenza di Vermicino tiene il Paese con il fiato sospeso, raccolto attorno a un lembo di terra dove i soccorritori provano il tutto per tutto per salvare il piccolo in una lunga sequenza di tentativi, in cui si alternano ottimismo e preoccupazione.
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\r\nIl 12 giugno arriva a Vermicino anche il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, ed è ancora lì, accanto ai familiari del bambino, per l’ultimo disperato tentativo di trarre in salvo Alfredino. Sono le 5.02 del 13 giugno quando uno speleologo si cala nel pozzo, raggiunge il bambino e tenta di imbracarlo. Ritenta. Fallisce ancora. Quando torna in superficie annuncia ai genitori, all’Italia, che Alfredino è morto.
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\r\nLa tragedia di Vermicino segna una dolorosa e importante tappa nella nascita del moderno Servizio Nazionale, che parte dalla presa di coscienza dei limiti del sistema dei soccorsi e della necessità di un maggior coordinamento delle risorse coinvolte nella gestione emergenziale.

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Questa e altre emergenze – come il terremoto dell’Irpinia – alimentano il dibattito civile e culturale che porterà al superamento del vecchio assetto operativo e alla nascita, nel 1982, del Ministro per il Coordinamento della Protezione Civile e del Dipartimento della Protezione Civile, nell’ambito della Presidenza del Consiglio.

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Foto: Le operazioni di soccorso del piccolo Alfredo Rampi, caduto in pozzo artesiano nelle vicinanze di Roma il 10 giugno 1981 / Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco

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23 novembre 1980. Un terremoto di magnitudo 6.9 colpisce una vasta area della Campania, della Basilicata e marginalmente della Puglia. Il Presidente Pertini denuncia il ritardo dei soccorsi e le gravi mancanze nell’azione dello Stato.

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Il 23 novembre 1980 un terremoto di magnitudo 6.9 colpisce una vasta area della Campania, della Basilicata e marginalmente della Puglia, causando 2734 vittime. A riportare gravi lesioni sono complessivamente 688 comuni, metà dei quali registra la perdita dell’intero patrimonio abitativo. Le scosse sismiche innescano anche numerose frane, alcune delle quali imponenti, come quelle di Calitri, Caposele, Calabritto e Senerchia.

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Le linee elettriche e telefoniche saltano e le comunicazioni tra le zone terremotate e il centro si interrompono. La circolazione ferroviaria si arresta completamente e la penisola rimane tagliata in due. La situazione è ulteriormente aggravata dalla popolazione che, in preda al panico, cerca di fuggire bloccando le principali arterie stradali. La gestione dell’emergenza è caratterizzata da notevoli difficoltà e ritardi. I primi soccorsi risentono della totale mancanza di coordinamento: volontari, strutture regionali e autonomie locali si mobilitano spontaneamente senza aver avuto indicazioni e precisi obiettivi operativi dal Ministero dell’Interno.

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In un celebre messaggio televisivo agli italiani del 26 novembre, il Presidente Pertini – che il giorno prima aveva raggiunto le zone terremotate – denuncia il ritardo dei soccorsi e le gravi mancanze nell’azione dello Stato, per le quali sarebbero state individuate precise responsabilità, concludendo: “Qui non c’entra la politica, qui c’entra la solidarietà umana, tutti gli italiani e le italiane devono sentirsi mobilitati per andare in aiuto di questi fratelli colpiti da questa sciagura. Perché credetemi il modo migliore per ricordare i morti è quello di pensare ai vivi”. Dopo il caos dei primi tre giorni, il Governo interviene nominando il Commissario straordinario Giuseppe Zamberletti, che riesce a riorganizzare i soccorsi e a dialogare con i sindaci.

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Inizia in quei mesi una riflessione sulla necessità di un coordinamento dei soccorsi efficace, che nel febbraio del 1982 porta alla nomina di Zamberletti quale Ministro per il Coordinamento della Protezione Civile e, qualche mese dopo, all’istituzione del Dipartimento della Protezione Civile.

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Foto: Squadre al lavoro dopo il terremoto in Irpinia del 23 novembre 1980 / Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco

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Il 23 novembre 1980 un terremoto di magnitudo 6.9 colpisce una vasta area della Campania, della Basilicata e marginalmente della Puglia, causando 2734 vittime. A riportare gravi lesioni sono complessivamente 688 comuni, metà dei quali registra la perdita dell’intero patrimonio abitativo. Le scosse sismiche innescano anche numerose frane, alcune delle quali imponenti, come quelle di Calitri, Caposele, Calabritto e Senerchia.
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\r\nLe linee elettriche e telefoniche saltano e le comunicazioni tra le zone terremotate e il centro si interrompono. La circolazione ferroviaria si arresta completamente e la penisola rimane tagliata in due. La situazione è ulteriormente aggravata dalla popolazione che, in preda al panico, cerca di fuggire bloccando le principali arterie stradali. La gestione dell’emergenza è caratterizzata da notevoli difficoltà e ritardi. I primi soccorsi risentono della totale mancanza di coordinamento: volontari, strutture regionali e autonomie locali si mobilitano spontaneamente senza aver avuto indicazioni e precisi obiettivi operativi dal Ministero dell’Interno.

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In un celebre messaggio televisivo agli italiani del 26 novembre, il Presidente Pertini – che il giorno prima aveva raggiunto le zone terremotate – denuncia il ritardo dei soccorsi e le gravi mancanze nell’azione dello Stato, per le quali sarebbero state individuate precise responsabilità, concludendo: “Qui non c’entra la politica, qui c’entra la solidarietà umana, tutti gli italiani e le italiane devono sentirsi mobilitati per andare in aiuto di questi fratelli colpiti da questa sciagura. Perché credetemi il modo migliore per ricordare i morti è quello di pensare ai vivi”. Dopo il caos dei primi tre giorni, il Governo interviene nominando il Commissario straordinario Giuseppe Zamberletti, che riesce a riorganizzare i soccorsi e a dialogare con i sindaci.
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\r\nInizia in quei mesi una riflessione sulla necessità di un coordinamento dei soccorsi efficace, che nel febbraio del 1982 porta alla nomina di Zamberletti quale Ministro per il Coordinamento della Protezione Civile e, qualche mese dopo, all’istituzione del Dipartimento della Protezione Civile.

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Foto: Squadre al lavoro dopo il terremoto in Irpinia del 23 novembre 1980 / Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco

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6 maggio 1976. Un terremoto di magnitudo 6.4 colpisce duramente il Friuli e in particolare la media valle del Fiume Tagliamento. Nelle ore che seguono la scossa, il Governo affida la direzione delle operazioni di soccorso al Commissario straordinario Giuseppe Zamberletti.

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Il 6 maggio 1976 un terremoto di magnitudo 6.4 colpisce duramente il Friuli e in particolare la media valle del Fiume Tagliamento, coinvolgendo oltre cento paesi nelle Province di Udine e Pordenone. Il terremoto, avvertito in quasi tutta l’Italia centro-settentrionale, è seguito da numerose repliche, alcune delle quali molto forti. Il 15 settembre una nuova scossa di magnitudo 5.9 provoca ulteriori distruzioni. Perdono la vita complessivamente 965 persone.

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Il danno al patrimonio edilizio è enorme e notevole l’impatto sull’economia: circa 15mila lavoratori perdono il posto di lavoro per la distruzione o il danneggiamento delle fabbriche. Nonostante fosse conosciuta l’elevata sismicità della regione e, in particolare, della zona compresa tra la pianura e i rilievi montuosi, la maggior parte dei comuni colpiti in modo rilevante – come Buia, Gemona e Osoppo – non erano classificati come sismici e non erano quindi soggetti all’applicazione di norme specifiche per le costruzioni.

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La forte presenza militare in Friuli consente operazioni di soccorso rapide ed efficaci, facilitando lo sgombero delle macerie, la riattivazione dei servizi, l’allestimento di ricoveri provvisori e cucine da campo. Nelle ore che seguono la scossa, il Governo affida la direzione delle operazioni di soccorso al Commissario straordinario Giuseppe Zamberletti, che sei anni dopo viene nominato Ministro per il Coordinamento della Protezione Civile.

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Nella gestione dell’emergenza sono coinvolti da subito il governo regionale e i sindaci dei Comuni colpiti, che lavorano in stretto contatto con il Commissario straordinario. La Regione e le Autonomie locali sono investite di un ruolo importante e complesso che, fino ad allora, era stato gestito prevalentemente a livello centrale. Per la prima volta sono istituiti i “centri operativi”, con l’obiettivo di creare in ciascun Comune della zona colpita un organismo direttivo composto dai rappresentanti di amministrazioni pubbliche e private, sotto la guida del sindaco, per coordinare il soccorso e l’assistenza alla popolazione.

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Conoscendo le caratteristiche del territorio e le sue risorse, i sindaci e i cittadini hanno un ruolo centrale anche nella fase di ricostruzione del tessuto urbano e sociale secondo quello che oggi è conosciuto come il “modello Friuli”, secondo il quale la ricostruzione delle case e delle industrie deve avvenire negli stessi luoghi, “dov’erano, com’erano”. In poco più di 15 anni il Friuli rinasce.

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Foto: Squadre di soccorritori all’opera in seguito al terremoto in Friuli del 6 maggio 1976 / Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco

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Il 6 maggio 1976 un terremoto di magnitudo 6.4 colpisce duramente il Friuli e in particolare la media valle del Fiume Tagliamento, coinvolgendo oltre cento paesi nelle Province di Udine e Pordenone. Il terremoto, avvertito in quasi tutta l’Italia centro-settentrionale, è seguito da numerose repliche, alcune delle quali molto forti. Il 15 settembre una nuova scossa di magnitudo 5.9 provoca ulteriori distruzioni. Perdono la vita complessivamente 965 persone.

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Il danno al patrimonio edilizio è enorme e notevole l’impatto sull’economia: circa 15mila lavoratori perdono il posto di lavoro per la distruzione o il danneggiamento delle fabbriche. Nonostante fosse conosciuta l’elevata sismicità della regione e, in particolare, della zona compresa tra la pianura e i rilievi montuosi, la maggior parte dei comuni colpiti in modo rilevante – come Buia, Gemona e Osoppo – non erano classificati come sismici e non erano quindi soggetti all’applicazione di norme specifiche per le costruzioni.

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La forte presenza militare in Friuli consente operazioni di soccorso rapide ed efficaci, facilitando lo sgombero delle macerie, la riattivazione dei servizi, l’allestimento di ricoveri provvisori e cucine da campo. Nelle ore che seguono la scossa, il Governo affida la direzione delle operazioni di soccorso al Commissario straordinario Giuseppe Zamberletti, che sei anni dopo viene nominato Ministro per il Coordinamento della Protezione Civile.

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Nella gestione dell’emergenza sono coinvolti da subito il governo regionale e i sindaci dei Comuni colpiti, che lavorano in stretto contatto con il Commissario straordinario. La Regione e le Autonomie locali sono investite di un ruolo importante e complesso che, fino ad allora, era stato gestito prevalentemente a livello centrale. Per la prima volta sono istituiti i “centri operativi”, con l’obiettivo di creare in ciascun Comune della zona colpita un organismo direttivo composto dai rappresentanti di amministrazioni pubbliche e private, sotto la guida del sindaco, per coordinare il soccorso e l’assistenza alla popolazione.

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Conoscendo le caratteristiche del territorio e le sue risorse, i sindaci e i cittadini hanno un ruolo centrale anche nella fase di ricostruzione del tessuto urbano e sociale secondo quello che oggi è conosciuto come il “modello Friuli”, secondo il quale la ricostruzione delle case e delle industrie deve avvenire negli stessi luoghi, “dov’erano, com’erano”. In poco più di 15 anni il Friuli rinasce.

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Foto: Squadre di soccorritori all’opera in seguito al terremoto in Friuli del 6 maggio 1976 / Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco

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8 dicembre 1970. La Legge n. 996 definisce il concetto di “protezione civile” privilegiando il momento dell’emergenza, cioè del soccorso da attuare nell’immediatezza dell’evento. Attribuisce inoltre un ruolo centrale al Ministero dell’Interno che, in caso di catastrofe, assume la direzione e il coordinamento degli interventi.

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La Legge n. 996 dell'8 dicembre 1970 – “Norme sul soccorso e l’assistenza alle popolazioni colpite da calamità-Protezione Civile” – delinea un quadro complessivo sugli interventi di protezione civile. 

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Per la prima volta il nostro ordinamento definisce il concetto di \"protezione civile\", intesa come l’attività di predisposizione dei servizi finalizzati a garantire il soccorso e l’assistenza alle popolazioni in caso di emergenza e, al verificarsi della calamità, il coordinamento degli interventi delle amministrazioni dello Stato, delle Regioni e degli Enti pubblici territoriali e istituzionali. Viene inoltre precisata per la prima volta la nozione di calamità naturale o catastrofe: “l’insorgenza di situazioni che comportino grave danno e pericolo di danno all’incolumità delle persone e dei beni, e che per la loro natura ed estensione debbano essere fronteggiate con interventi tecnici straordinari”. 

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La direzione e il coordinamento di tutte le attività passano dal Ministero dei Lavori Pubblici al Ministero dell’Interno, nell’ambito del quale viene istituito il Comitato Interministeriale della Protezione Civile per un migliore coordinamento dell’attività dei vari Ministeri. È prevista la nomina di un Commissario per le emergenze, che dirige e coordina i soccorsi sul luogo del disastro. La legge prevede la dichiarazione di catastrofe o di calamità naturale attraverso un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, che contiene anche la nomina del Commissario.

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Per assistere la popolazione dalla prima emergenza al ritorno alla normalità vengono creati i CAPI-Centri Assistenziali di Pronto Intervento. Per la prima volta viene inoltre riconosciuta l’attività del volontariato di protezione civile: è il Ministero dell’Interno, attraverso i Vigili del Fuoco, a istruire, addestrare ed equipaggiare i cittadini che volontariamente offrono il loro aiuto.

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La Legge n. 996/70 privilegia il momento dell’emergenza: di fatto disciplina solo il soccorso da mettere in campo nell’immediatezza dell’evento. Il regolamento d’esecuzione della legge verrà approvato dopo undici anni.

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La Legge n. 996 dell'8 dicembre 1970 – “Norme sul soccorso e l’assistenza alle popolazioni colpite da calamità-Protezione Civile” – delinea un quadro complessivo sugli interventi di protezione civile. 

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Per la prima volta il nostro ordinamento definisce il concetto di \"protezione civile\", intesa come l’attività di predisposizione dei servizi finalizzati a garantire il soccorso e l’assistenza alle popolazioni in caso di emergenza e, al verificarsi della calamità, il coordinamento degli interventi delle amministrazioni dello Stato, delle Regioni e degli Enti pubblici territoriali e istituzionali. Viene inoltre precisata per la prima volta la nozione di calamità naturale o catastrofe: “l’insorgenza di situazioni che comportino grave danno e pericolo di danno all’incolumità delle persone e dei beni, e che per la loro natura ed estensione debbano essere fronteggiate con interventi tecnici straordinari”. 

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La direzione e il coordinamento di tutte le attività passano dal Ministero dei Lavori Pubblici al Ministero dell’Interno, nell’ambito del quale viene istituito il Comitato Interministeriale della Protezione Civile per un migliore coordinamento dell’attività dei vari Ministeri. È prevista la nomina di un Commissario per le emergenze, che dirige e coordina i soccorsi sul luogo del disastro. La legge prevede la dichiarazione di catastrofe o di calamità naturale attraverso un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, che contiene anche la nomina del Commissario.

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Per assistere la popolazione dalla prima emergenza al ritorno alla normalità vengono creati i CAPI-Centri Assistenziali di Pronto Intervento. Per la prima volta viene inoltre riconosciuta l’attività del volontariato di protezione civile: è il Ministero dell’Interno, attraverso i Vigili del Fuoco, a istruire, addestrare ed equipaggiare i cittadini che volontariamente offrono il loro aiuto.

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La Legge n. 996/70 privilegia il momento dell’emergenza: di fatto disciplina solo il soccorso da mettere in campo nell’immediatezza dell’evento. Il regolamento d’esecuzione della legge verrà approvato dopo undici anni.

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14 gennaio 1968. Un terremoto di magnitudo 6.4 devasta la Valle del Belice, in Sicilia. La gestione dell’emergenza si rivela fallimentare per la mancanza di coordinamento tra le forze in campo. La ricostruzione sarà molto lunga, con i centri abitati riedificati in luoghi distanti da quelli colpiti dal terremoto.

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Nel 1968 l’Italia subisce la prima grave emergenza del dopoguerra. Nella notte tra il 14 e il 15 gennaio un violento terremoto di magnitudo 6.5 colpisce la Sicilia occidentale e, in particolare, le province di Palermo, Trapani e Agrigento. La Valle del Belice è devastata. Gibellina, Montevago, Poggioreale e Salaparuta sono rase al suolo. Gravemente danneggiate anche Menfi, Partanna, Camporeale, Chiusa Scafani, Contessa Entellina, Sciacca, Santa Ninfa, Salemi, Vita, Calatafimi e Santa Margherita del Belice.

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Il bilancio è pesantissimo: 296 persone perdono la vita, oltre mille restano ferite e quasi 100mila sono senza casa. La catastrofe mette in luce anche la fatiscenza delle abitazioni, che non reggono alle scosse. Il patrimonio edilizio rurale subisce danni irreparabili, con ripercussioni gravi sull’economia quasi esclusivamente agricola del territorio. Inizia così un lungo periodo sismico che si conclude un anno più tardi, nel febbraio del 1969. Innumerevoli le scosse, le più forti delle quali tra il 14 ed il 25 gennaio 1968 quando – con le squadre di soccorritori ancora a lavoro tra le macerie – una violenta replica provoca la morte di un vigile del fuoco e ulteriori danni tra Palermo e Sciacca.

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La difficile gestione dell’emergenza, i ritardi nei soccorsi, le persone senza casa costrette all'emigrazione: il terremoto del Belice segna pesantemente la storia italiana del dopoguerra e migliaia di famiglie vedono la propria vita cambiare per sempre. Dopo i primi drammatici mesi, i terremotati del Belice arrivano a Roma per far sentire la propria voce e la parola è una sola: ricostruzione. Il 2 marzo del 1968 terremotati e studenti si incontrano in Piazza Colonna, davanti al Parlamento, e chiedono al Presidente del Consiglio Aldo Moro una legge ad hoc per lo sviluppo della valle del Belice.

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Quella del Belice sarà una ricostruzione molto lunga, i centri abitati saranno spostati in luoghi distanti da quelli colpiti dal terremoto senza tenere realmente conto delle esigenze di vita e di lavoro degli abitanti del luogo. Tuttavia, grazie anche al momento storico di grande fermento umano e culturale, il Belice diventa un laboratorio a cielo aperto e la stessa città di Gibellina è ricostruita a partire dal contributo di intellettuali e artisti come Sciascia, Consagra, Schifano, Pomodoro, Paladino.

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Il \"Grande Cretto\" di Alberto Burri è un simbolo potente di questo intervento. L’opera contemporanea, tra le più estese al mondo, sorge sulle macerie di Gibellina che l’artista “congela” con il cemento. Una veste bianca, che copre e al tempo stesso protegge la città distrutta dal terremoto e la memoria della sua gente.

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Foto: Crolli causati dal terremoto del 14 gennaio del 1968 nella Valle del Belice, nella Sicilia occidentale / Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco

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Nel 1968 l’Italia subisce la prima grave emergenza del dopoguerra. Nella notte tra il 14 e il 15 gennaio un violento terremoto di magnitudo 6.5 colpisce la Sicilia occidentale e, in particolare, le province di Palermo, Trapani e Agrigento. La Valle del Belice è devastata. Gibellina, Montevago, Poggioreale e Salaparuta sono rase al suolo. Gravemente danneggiate anche Menfi, Partanna, Camporeale, Chiusa Scafani, Contessa Entellina, Sciacca, Santa Ninfa, Salemi, Vita, Calatafimi e Santa Margherita del Belice.
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\r\nIl bilancio è pesantissimo: 296 persone perdono la vita, oltre mille restano ferite e quasi 100mila sono senza casa. La catastrofe mette in luce anche la fatiscenza delle abitazioni, che non reggono alle scosse. Il patrimonio edilizio rurale subisce danni irreparabili, con ripercussioni gravi sull’economia quasi esclusivamente agricola del territorio. Inizia così un lungo periodo sismico che si conclude un anno più tardi, nel febbraio del 1969. Innumerevoli le scosse, le più forti delle quali tra il 14 ed il 25 gennaio 1968 quando – con le squadre di soccorritori ancora a lavoro tra le macerie – una violenta replica provoca la morte di un vigile del fuoco e ulteriori danni tra Palermo e Sciacca.
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\r\nLa difficile gestione dell’emergenza, i ritardi nei soccorsi, le persone senza casa costrette all'emigrazione: il terremoto del Belice segna pesantemente la storia italiana del dopoguerra e migliaia di famiglie vedono la propria vita cambiare per sempre. Dopo i primi drammatici mesi, i terremotati del Belice arrivano a Roma per far sentire la propria voce e la parola è una sola: ricostruzione. Il 2 marzo del 1968 terremotati e studenti si incontrano in Piazza Colonna, davanti al Parlamento, e chiedono al Presidente del Consiglio Aldo Moro una legge ad hoc per lo sviluppo della valle del Belice.
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\r\nQuella del Belice sarà una ricostruzione molto lunga, i centri abitati saranno spostati in luoghi distanti da quelli colpiti dal terremoto senza tenere realmente conto delle esigenze di vita e di lavoro degli abitanti del luogo. 
Tuttavia, grazie anche al momento storico di grande fermento umano e culturale, il Belice diventa un laboratorio a cielo aperto e la stessa città di Gibellina è ricostruita a partire dal contributo di intellettuali e artisti come Sciascia, Consagra, Schifano, Pomodoro, Paladino.
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\r\nIl \"Grande Cretto\" di Alberto Burri è un simbolo potente di questo intervento. L’opera contemporanea, tra le più estese al mondo, sorge sulle macerie di Gibellina che l’artista “congela” con il cemento. Una veste bianca, che copre e al tempo stesso protegge la città distrutta dal terremoto e la memoria della sua gente.

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Foto: Crolli causati dal terremoto del 14 gennaio del 1968 nella Valle del Belice, nella Sicilia occidentale / Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco

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4 novembre 1966. A seguito di un'eccezionale ondata di maltempo, l'Arno esonda e allaga Firenze. Molti quartieri, compreso il centro storico, finiscono sott'acqua. Nei primi giorni, gli aiuti arrivano quasi esclusivamente dagli “angeli del fango” e dalle truppe di stanza in città. 

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Nella notte tra il 3 e il 4 novembre 1966, dopo dieci giorni di pioggia incessante, l’Arno esonda nel Casentino e nel Valdarno Superiore. Quando la piena raggiunge il capoluogo toscano lo fa irreparabilmente: un’onda alta tre metri percorre le vie della città alla velocità di 60 chilometri orari. Dai lungarni, trasformati in un unico fiume, il fango si riversa ovunque travolgendo case, chiese, edifici storici.

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Nel quartiere di Santa Croce, in via dei Neri, una targa ricorda il punto più alto raggiunto dalla piena: 4 metri e 92 centimetri. Causa l’assenza di una rete di monitoraggio l’esondazione dell’Arno non viene preannunciata con anticipo e i cittadini vengono colti di sorpresa. I fiorentini, sorpresi in casa o nelle strade inondate dalle acque, si trovano a lottare per la vita. Saranno 35 complessivamente le vittime nella regione.

\n

Il 6 novembre 1966, quando l’Arno si ritira, lascia la città sotto 600mila tonnellate di fango. Carabinieri, uomini della Polizia e dell’Esercito, Vigili del Fuoco: tutti convogliano a Firenze per far fronte all’alluvione. I soli Vigili del Fuoco, nella notte tra il 4 e il 5 novembre, mettono in salvo migliaia di persone, portando a termine oltre 9mila interventi. Superata la fase dei primi soccorsi le attività si concentrano sulla distribuzione di medicinali, viveri e mangime per il bestiame.

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Elemento chiave di questa emergenza è la capacità di risposta spontanea della gente comune, della “cittadinanza attiva” arrivata da ogni parte d’Italia e da molti Paesi esteri per offrire aiuto a una città in ginocchio: “gli angeli del fango”. Le Forze Armate, pur numerose, si trovano invece a operare prive di quel coordinamento che troverà naturale espressione solo nella futura protezione civile. Solo sei giorni dopo l’alluvione il governo è in grado di mettere in campo una rete di soccorso organizzata.

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Per la prima volta in Italia si percepisce la mancanza di un sistema nazionale in grado non solo di intervenire efficacemente nell’emergenza, ma anche di monitorare il territorio attraverso una costante attività di previsione e prevenzione. Una risposta normativa arriva nel 1970 con la Legge 996 – “Norme sul soccorso e l’assistenza alle popolazioni colpite da calamità” – che delinea un quadro complessivo di interventi di protezione civile e riconosce, per la prima volta, l’attività del volontariato.

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Foto: Il centro storico di Firenze dopo l'alluvione del 4 novembre 1966 / Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco

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Nella notte tra il 3 e il 4 novembre 1966, dopo dieci giorni di pioggia incessante, l’Arno esonda nel Casentino e nel Valdarno Superiore. Quando la piena raggiunge il capoluogo toscano lo fa irreparabilmente: un’onda alta tre metri percorre le vie della città alla velocità di 60 chilometri orari. Dai lungarni, trasformati in un unico fiume, il fango si riversa ovunque travolgendo case, chiese, edifici storici.
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\r\nNel quartiere di Santa Croce, in via dei Neri, una targa ricorda il punto più alto raggiunto dalla piena: 4 metri e 92 centimetri. Causa l’assenza di una rete di monitoraggio l’esondazione dell’Arno non viene preannunciata con anticipo e i cittadini vengono colti di sorpresa. I fiorentini, sorpresi in casa o nelle strade inondate dalle acque, si trovano a lottare per la vita. Saranno 35 complessivamente le vittime nella regione.

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Il 6 novembre 1966, quando l’Arno si ritira, lascia la città sotto 600mila tonnellate di fango. Carabinieri, uomini della Polizia e dell’Esercito, Vigili del Fuoco: tutti convogliano a Firenze per far fronte all’alluvione. I soli Vigili del Fuoco, nella notte tra il 4 e il 5 novembre, mettono in salvo migliaia di persone, portando a termine oltre 9mila interventi. Superata la fase dei primi soccorsi le attività si concentrano sulla distribuzione di medicinali, viveri e mangime per il bestiame.
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\r\nElemento chiave di questa emergenza è la capacità di risposta spontanea della gente comune, della “cittadinanza attiva” arrivata da ogni parte d’Italia e da molti Paesi esteri per offrire aiuto a una città in ginocchio: “gli angeli del fango”. Le Forze Armate, pur numerose, si trovano invece a operare prive di quel coordinamento che troverà naturale espressione solo nella futura protezione civile.
Solo sei giorni dopo l’alluvione il governo è in grado di mettere in campo una rete di soccorso organizzata.
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\r\nPer la prima volta in Italia si percepisce la mancanza di un sistema nazionale in grado non solo di intervenire efficacemente nell’emergenza, ma anche di monitorare il territorio attraverso una costante attività di previsione e prevenzione. Una risposta normativa arriva nel 1970 con la Legge 996 – “Norme sul soccorso e l’assistenza alle popolazioni colpite da calamità” – che delinea un quadro complessivo di interventi di protezione civile e riconosce, per la prima volta, l’attività del volontariato.

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Foto: Il centro storico di Firenze dopo l'alluvione del 4 novembre 1966 / Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco

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23 luglio 1930. Una scossa di magnitudo 6.7 colpisce una vasta area dell’Italia meridionale compresa tra l’alta Irpinia e la zona del Vulture. Gravi e diffusi i danni, causati soprattutto dalle caratteristiche dei terreni e dalla fragilità del patrimonio abitativo. 

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Il 23 luglio 1930 una scossa di magnitudo 6.7 colpisce una vasta area dell’Italia meridionale compresa tra l’alta Irpinia e la zona del Vulture, interessando le province di Napoli, Avellino, Benevento, Foggia, Potenza e Salerno. A subire i danni più gravi è l’alta Irpinia e in particolare i centri abitati di Lacedonia, Aquilonia e Villanova, in provincia di Avellino. In provincia di Potenza sono colpiti i paesi di Rapolla, Barile, Rionero, Atella, Melfi, posti ai piedi del Monte Vulture. Circa 1400 le vittime.

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Il territorio interessato dall’evento è caratterizzato, come spesso si osserva nell’Italia centrale e meridionale, da piccoli paesi generalmente situati a quote superiori ai 600 metri sul livello del mare, il più delle volte collegati da strade tortuose e mal tenute. Nonostante questa regione dell’Appennino meridionale fosse stata ripetutamente interessata nel corso dei secoli da alcuni tra i più catastrofici terremoti della storia sismica italiana, nulla era stato fatto per prevenire il rischio legato al verificarsi di eventi simili.

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La causa principale dei gravi danni provocati dalla scossa del 23 luglio è da ricercarsi in parte nelle caratteristiche dei terreni sui quali erano stati edificati i centri abitati – argillosi, sabbiosi o ghiaiosi – ma soprattutto nella fragilità del patrimonio abitativo, costituito per lo più da case realizzate con pietre di fiume legate da pessima malta o addirittura da fango essiccato. Il terremoto pone dunque, in modo drammatico, il tema della vulnerabilità sismica del patrimonio edilizio.

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Foto: Crolli causati dal terremoto del 23 luglio 1930 in un paese del Vulture, nel nord della Basilicata / Bundesarchiv, numero di catalogo 102-10192, pubblicata su commons.wikimedia.org con licenza CC BY-SA 3.0

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Il territorio interessato dall’evento è caratterizzato, come spesso si osserva nell’Italia centrale e meridionale, da piccoli paesi generalmente situati a quote superiori ai 600 metri sul livello del mare, il più delle volte collegati da strade tortuose e mal tenute. Nonostante questa regione dell’Appennino meridionale fosse stata ripetutamente interessata nel corso dei secoli da alcuni tra i più catastrofici terremoti della storia sismica italiana, nulla era stato fatto per prevenire il rischio legato al verificarsi di eventi simili.

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La causa principale dei gravi danni provocati dalla scossa del 23 luglio è da ricercarsi in parte nelle caratteristiche dei terreni sui quali erano stati edificati i centri abitati – argillosi, sabbiosi o ghiaiosi – ma soprattutto nella fragilità del patrimonio abitativo, costituito per lo più da case realizzate con pietre di fiume legate da pessima malta o addirittura da fango essiccato. Il terremoto pone dunque, in modo drammatico, il tema della vulnerabilità sismica del patrimonio edilizio.

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Foto: Crolli causati dal terremoto del 23 luglio 1930 in un paese del Vulture, nel nord della Basilicata / Bundesarchiv, numero di catalogo 102-10192, pubblicata su commons.wikimedia.org con licenza CC BY-SA 3.0

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9 ottobre 1963. Una frana di enormi dimensioni – 270 milioni di metri cubi – si stacca dal monte Toc precipitando nelle acque del bacino alpino idroelettrico del Vajont, nell'omonima valle al confine tra Friuli-Venezia Giulia e Veneto. 

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Vajont è il nome del torrente che scorre nella valle di Erto e Casso, in provincia di Pordenone, per confluire poi nel Piave, davanti a Longarone e a Castellavazzo, in provincia di Belluno.

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La morfologia della valle del torrente Vajont, al confine tra Friuli-Venezia Giulia e Veneto, era stata profondamente modificata dalla costruzione di un’imponente diga alta oltre 260 metri, inaugurata nel 1959 come la più grande opera ingegneristica realizzata in Italia per la produzione di energia elettrica. Lo sbarramento creava un lago destinato a raccogliere acqua da tutti i bacini artificiali del Cadore, per poi convogliarla alla centrale elettrica di Soverzene. La diga fu però realizzata senza tenere conto delle caratteristiche morfologiche dei versanti, del tutto inadatti a contenere un serbatoio idroelettrico.

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La notte del 9 ottobre 1963 una frana di enormi dimensioni – 270 milioni di metri cubi – si stacca dal versante settentrionale del monte Toc precipitando nelle acque del bacino idroelettrico. L’impatto con l’acqua genera un’onda di circa 50 milioni di metri cubi che travolge prima Erto e Casso per poi scavalcare la grande diga e distruggere gli abitati del fondovalle veneto, tra cui Longarone. 1.917 persone perdono la vita, 400 non saranno mai ritrovate.

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Foto: Il disastro del Vajont del 9 ottobre 1963 / Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco

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Vajont è il nome del torrente che scorre nella valle di Erto e Casso, in provincia di Pordenone, per confluire poi nel Piave, davanti a Longarone e a Castellavazzo, in provincia di Belluno.
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\r\nLa morfologia della valle del torrente Vajont, al confine tra Friuli-Venezia Giulia e Veneto, era stata profondamente modificata dalla costruzione di un’imponente diga alta oltre 260 metri, inaugurata nel 1959 come la più grande opera ingegneristica realizzata in Italia per la produzione di energia elettrica. Lo sbarramento creava un lago destinato a raccogliere acqua da tutti i bacini artificiali del Cadore, per poi convogliarla alla centrale elettrica di Soverzene. La diga fu però realizzata senza tenere conto delle caratteristiche morfologiche dei versanti, del tutto inadatti a contenere un serbatoio idroelettrico.

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La notte del 9 ottobre 1963 una frana di enormi dimensioni – 270 milioni di metri cubi – si stacca dal versante settentrionale del monte Toc precipitando nelle acque del bacino idroelettrico. L’impatto con l’acqua genera un’onda di circa 50 milioni di metri cubi che travolge prima Erto e Casso per poi scavalcare la grande diga e distruggere gli abitati del fondovalle veneto, tra cui Longarone. 1.917 persone perdono la vita, 400 non saranno mai ritrovate.

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Foto: Il disastro del Vajont del 9 ottobre 1963 / Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco

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14 novembre 1951. Nei primi giorni di novembre, intense precipitazioni interessano la Val Padana e determinano una piena eccezionale del fiume Po. Il fiume rompe gli argini nel parmense e subito dopo nel rodigino, allagando la zona del Polesine. 

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Nei primi giorni del novembre 1951 intense precipitazioni interessano la Val Padana e determinano una piena eccezionale del fiume Po. Il fiume rompe gli argini tra l’11 e il 12 novembre nel parmense e due giorni dopo nel rodigino, allagando la zona del Polesine, in Veneto, caratterizzata da ampie aree a quote inferiori al livello del mare.

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I canali e gli argini, costruiti per fronteggiare gli allagamenti, si trovavano in precarie condizioni perché danneggiati durante il periodo bellico e scarsamente manutenuti negli anni successivi. Per undici giorni le acque sommergono un’area di oltre mille chilometri quadrati, raggiungendo in alcuni punti la profondità di sei metri. Oltre cento le vittime e ingenti i danni alle abitazioni, ai raccolti, agli allevamenti, ai magazzini, alle aziende agricole.

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A fronte di soccorsi inadeguati, il Paese intero si mobilita in una grande campagna di solidarietà. Dall’Italia e dall’estero arrivano volontari, medicinali, viveri e indumenti destinati all’area alluvionata. L'opera di prosciugamento dei terreni terminerà solo nel maggio 1952. 180mila persone saranno costrette a lasciare la propria casa, 80mila non vi faranno più ritorno, dando vita alla prima ondata migratoria del secondo dopoguerra.

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Foto: Soccorsi agli alluvionati del Polesine nel 1951 / Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco

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Nei primi giorni del novembre 1951 intense precipitazioni interessano la Val Padana e determinano una piena eccezionale del fiume Po. Il fiume rompe gli argini tra l’11 e il 12 novembre nel parmense e due giorni dopo nel rodigino, allagando la zona del Polesine, in Veneto, caratterizzata da ampie aree a quote inferiori al livello del mare.

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I canali e gli argini, costruiti per fronteggiare gli allagamenti, si trovavano in precarie condizioni perché danneggiati durante il periodo bellico e scarsamente manutenuti negli anni successivi. Per undici giorni le acque sommergono un’area di oltre mille chilometri quadrati, raggiungendo in alcuni punti la profondità di sei metri. Oltre cento le vittime e ingenti i danni alle abitazioni, ai raccolti, agli allevamenti, ai magazzini, alle aziende agricole.

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A fronte di soccorsi inadeguati, il Paese intero si mobilita in una grande campagna di solidarietà. Dall’Italia e dall’estero arrivano volontari, medicinali, viveri e indumenti destinati all’area alluvionata. L'opera di prosciugamento dei terreni terminerà solo nel maggio 1952. 180mila persone saranno costrette a lasciare la propria casa, 80mila non vi faranno più ritorno, dando vita alla prima ondata migratoria del secondo dopoguerra.

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Foto: Soccorsi agli alluvionati del Polesine nel 1951 / Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco

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2 settembre 1919. Il Regio Decreto-Legge n. 1915 fornisce un primo assetto normativo al soccorso in caso di terremoti. Il provvedimento individua nel Ministero dei Lavori Pubblici l’autorità responsabile della direzione e del coordinamento.

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A dare un primo assetto normativo al soccorso in caso di terremoti è il Regio Decreto-Legge n. 1915 del 2 settembre 1919, che individua nel Ministero dei Lavori Pubblici l’autorità responsabile della direzione e del coordinamento.

\n

Occorre attendere il 1925 per una prima normativa organica in materia di protezione civile: la Legge n. 473 del 17 aprile individua nel Ministero dei Lavori Pubblici e nel suo braccio operativo, il Genio Civile, gli organi fondamentali per il soccorso, con il concorso delle strutture sanitarie.

\n

Il Regio Decreto-Legge n. 2389 del 9 dicembre 1926, convertito nella Legge n. 833 del 15 marzo 1928, definisce ulteriormente l’organizzazione dei soccorsi e conferma la responsabilità del Ministero dei Lavori Pubblici nel dirigere e coordinare gli interventi anche delle altre amministrazioni ed enti dello Stato, come i Pompieri, le Ferrovie dello Stato, la Croce Rossa. I soccorsi non si limitano ai soli “disastri tellurici”, ma vengono estesi a quelli “di altra natura”.

\n

In attesa dell’arrivo sul luogo del disastro del Ministro dei Lavori Pubblici, o del Sottosegretario di Stato, tutte le autorità civili e militari dipendono dal Prefetto, rappresentante del Governo nella provincia, che coordina i primissimi interventi. Stesso potere hanno i sindaci sul territorio comunale: appena venuti a conoscenza dell’evento, devono inviare sul luogo i Pompieri e il personale a loro disposizione, dandone immediata notizia al Prefetto.

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A dare un primo assetto normativo al soccorso in caso di terremoti è il Regio Decreto-Legge n. 1915 del 2 settembre 1919, che individua nel Ministero dei Lavori Pubblici l’autorità responsabile della direzione e del coordinamento.

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Occorre attendere il 1925 per una prima normativa organica in materia di protezione civile: la Legge n. 473 del 17 aprile individua nel Ministero dei Lavori Pubblici e nel suo braccio operativo, il Genio Civile, gli organi fondamentali per il soccorso, con il concorso delle strutture sanitarie.

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Il Regio Decreto-Legge n. 2389 del 9 dicembre 1926, convertito nella Legge n. 833 del 15 marzo 1928, definisce ulteriormente l’organizzazione dei soccorsi e conferma la responsabilità del Ministero dei Lavori Pubblici nel dirigere e coordinare gli interventi anche delle altre amministrazioni ed enti dello Stato, come i Pompieri, le Ferrovie dello Stato, la Croce Rossa. I soccorsi non si limitano ai soli “disastri tellurici”, ma vengono estesi a quelli “di altra natura”.

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In attesa dell’arrivo sul luogo del disastro del Ministro dei Lavori Pubblici, o del Sottosegretario di Stato, tutte le autorità civili e militari dipendono dal Prefetto, rappresentante del Governo nella provincia, che coordina i primissimi interventi. Stesso potere hanno i sindaci sul territorio comunale: appena venuti a conoscenza dell’evento, devono inviare sul luogo i Pompieri e il personale a loro disposizione, dandone immediata notizia al Prefetto.

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13 gennaio 1915. Una scossa di magnitudo 7 colpisce il Centro Italia con epicentro nella Piana del Fucino, in Abruzzo. Il terremoto della Marsica rappresenta uno dei terremoti più violenti che la storia italiana ricordi, per l’estensione dell’area colpita, il numero delle vittime, dei feriti e dei senzatetto.

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Il 13 gennaio 1915 alle 7.53 una scossa di magnitudo 7 colpisce il Centro Italia. Il terremoto, con epicentro nella Piana del Fucino, si abbatte sull’Abruzzo con effetti superiori all'XI grado della Scala Mercalli, interessando un settore della catena appenninica che fino ad allora si considerava caratterizzato da una sismicità poco significativa. All’evento principale seguono, nei mesi successivi, oltre mille repliche.

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La Marsica, caratterizzata da numerosi centri abitati e intensamente popolata, è rasa al suolo. Complessivamente oltre 30mila persone perdono la vita. Ad Avezzano, una delle città più colpite, sono meno di mille i superstiti su oltre 11 mila abitanti. Enormi perdite si registrano anche a Collarmele, San Benedetto dei Marsi, Paterno, Ortucchio, Gioia dei Marsi e in tutte le altre località della Piana e della Valle del Liri.

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All’alba del 14 gennaio, a ventiquattro ore dalla scossa, i primi soccorsi da Roma e dall’Aquila si fermano ad Avezzano, non riuscendo per giorni a raggiungere gli altri centri colpiti. I pochi militari inviati sul posto lavorano in condizioni estreme, procedendo tra le macerie e la neve alla ricerca dei superstiti. La Croce Rossa allestisce ospedali da campo e i feriti più gravi sono trasportati a Roma.

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A meno di un mese dalla catastrofe, il terremoto è già dimenticato dall’Italia di Cadorna, proiettata verso la Grande Guerra.

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Foto: Avezzano rasa al suolo dal terremoto della Marsica del 13 gennaio 1915 / Lansing Callan, di pubblico dominio su commons.wikimedia.org

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Il 13 gennaio 1915 alle 7.53 una scossa di magnitudo 7 colpisce il Centro Italia. Il terremoto, con epicentro nella Piana del Fucino, si abbatte sull’Abruzzo con effetti superiori all'XI grado della Scala Mercalli, interessando un settore della catena appenninica che fino ad allora si considerava caratterizzato da una sismicità poco significativa. All’evento principale seguono, nei mesi successivi, oltre mille repliche.

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La Marsica, caratterizzata da numerosi centri abitati e intensamente popolata, è rasa al suolo. Complessivamente oltre 30mila persone perdono la vita. Ad Avezzano, una delle città più colpite, sono meno di mille i superstiti su oltre 11 mila abitanti. Enormi perdite si registrano anche a Collarmele, San Benedetto dei Marsi, Paterno, Ortucchio, Gioia dei Marsi e in tutte le altre località della Piana e della Valle del Liri.

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All’alba del 14 gennaio, a ventiquattro ore dalla scossa, i primi soccorsi da Roma e dall’Aquila si fermano ad Avezzano, non riuscendo per giorni a raggiungere gli altri centri colpiti. I pochi militari inviati sul posto lavorano in condizioni estreme, procedendo tra le macerie e la neve alla ricerca dei superstiti. La Croce Rossa allestisce ospedali da campo e i feriti più gravi sono trasportati a Roma.

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A meno di un mese dalla catastrofe, il terremoto è già dimenticato dall’Italia di Cadorna, proiettata verso la Grande Guerra.

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Foto: Avezzano rasa al suolo dal terremoto della Marsica del 13 gennaio 1915 / Lansing Callan, di pubblico dominio su commons.wikimedia.org

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28 dicembre 1908. Una scossa di magnitudo 7.2 colpisce la Sicilia orientale e la Calabria meridionale. La scossa è seguita da un devastante maremoto che travolge le coste dello Stretto aggravando le distruzioni del terremoto e causando ulteriori vittime tra le persone scampate ai crolli. L’evento rappresenta una delle più gravi catastrofi verificatesi in Italia.

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Alle 5.20 del 28 dicembre 1908 una violenta scossa di magnitudo 7.2 colpisce la Sicilia orientale e la Calabria meridionale. L’evento rappresenta una delle più gravi catastrofi sismiche verificatesi in Italia. Il sisma distrugge quasi completamente le città di Messina e Reggio Calabria e provoca danni molto gravi su un’area di circa 6mila chilometri quadrati. La maggior parte della popolazione è sorpresa dal terremoto nel sonno.

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I danni sono in gran parte causati dalla scarsa resistenza dei terreni di fondazione e dalla scadente qualità delle costruzioni. A Messina il terremoto colpisce con particolare violenza il nucleo storico e la zona costiera della città. Importanti edifici sono rasi al suolo, tra cui la famosa “Palazzata”, la sequenza di fabbricati lungo il porto già distrutta e ricostruita dopo il terremoto del 1783.

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Circa dieci minuti dopo la scossa segue una devastante onda di maremoto che travolge entrambe le coste dello Stretto. Lo tsunami aggrava enormemente le distruzioni provocate dal terremoto e provoca nuove vittime tra le persone sopravvissute ai crolli che, proprio correndo verso il mare, cercavano una via di salvezza. Le vie di comunicazione sono impraticabili, le strade e le ferrovie distrutte, le linee telegrafiche e telefoniche interrotte anche a causa della rottura dei cavi sottomarini provocata dallo tsunami. Complessivamente, a causa del terremoto e del maremoto, circa 80mila persone perdono la vita.

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Gli effetti del terremoto condizionano per anni l’economia e le dinamiche demografiche delle aree colpite, interessate prima da un momentaneo spopolamento poi da un flusso migratorio alimentato dalla richiesta di manodopera per la ricostruzione.

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Il drammatico evento del 1908 segna l’inizio dell’azione dello Stato per la riduzione degli effetti dei terremoti, attraverso l’introduzione della classificazione sismica del territorio nazionale e l’applicazione di specifiche norme per le costruzioni. È del 1909, infatti, il primo Regio Decreto che introduce norme valide per l’intero territorio nazionale.

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Foto: I devastanti effetti del terremoto del 28 dicembre 1908 sulla città di Messina / Underwood&Underwood, numero di catalogo 10.495, di pubblico dominio su commons.wikimedia.org

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Alle 5.20 del 28 dicembre 1908 una violenta scossa di magnitudo 7.2 colpisce la Sicilia orientale e la Calabria meridionale. L’evento rappresenta una delle più gravi catastrofi sismiche verificatesi in Italia. Il sisma distrugge quasi completamente le città di Messina e Reggio Calabria e provoca danni molto gravi su un’area di circa 6mila chilometri quadrati. La maggior parte della popolazione è sorpresa dal terremoto nel sonno.

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I danni sono in gran parte causati dalla scarsa resistenza dei terreni di fondazione e dalla scadente qualità delle costruzioni. A Messina il terremoto colpisce con particolare violenza il nucleo storico e la zona costiera della città. Importanti edifici sono rasi al suolo, tra cui la famosa “Palazzata”, la sequenza di fabbricati lungo il porto già distrutta e ricostruita dopo il terremoto del 1783.

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Circa dieci minuti dopo la scossa segue una devastante onda di maremoto che travolge entrambe le coste dello Stretto. Lo tsunami aggrava enormemente le distruzioni provocate dal terremoto e provoca nuove vittime tra le persone sopravvissute ai crolli che, proprio correndo verso il mare, cercavano una via di salvezza. Le vie di comunicazione sono impraticabili, le strade e le ferrovie distrutte, le linee telegrafiche e telefoniche interrotte anche a causa della rottura dei cavi sottomarini provocata dallo tsunami. Complessivamente, a causa del terremoto e del maremoto, circa 80mila persone perdono la vita.

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Gli effetti del terremoto condizionano per anni l’economia e le dinamiche demografiche delle aree colpite, interessate prima da un momentaneo spopolamento poi da un flusso migratorio alimentato dalla richiesta di manodopera per la ricostruzione.

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Il drammatico evento del 1908 segna l’inizio dell’azione dello Stato per la riduzione degli effetti dei terremoti, attraverso l’introduzione della classificazione sismica del territorio nazionale e l’applicazione di specifiche norme per le costruzioni. È del 1909, infatti, il primo Regio Decreto che introduce norme valide per l’intero territorio nazionale.

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Foto: I devastanti effetti del terremoto del 28 dicembre 1908 sulla città di Messina / Underwood&Underwood, numero di catalogo 10.495, di pubblico dominio su commons.wikimedia.org

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Nel Regno d’Italia appena costituito soccorrere le popolazioni colpite da un’emergenza non è compito prioritario dello Stato: gli interventi sono principalmente affidati ai militari e considerati opere di beneficenza. Anche durante l’alluvione di Roma nel dicembre del 1870, a offrire i primi soccorsi sono le truppe dell’esercito che due mesi prima avevano conquistato la città con la Breccia di Porta Pia.

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Prima dell’Unità d’Italia l’organizzazione dei soccorsi è differenziata Stato per Stato. In occasione di grandi emergenze, come il terremoto della Val di Noto del 1693 e il terremoto in Calabria del 1783, le autorità centrali nominano un commissario con poteri eccezionali. A livello legislativo, esistono già norme antisismiche nello Stato Pontificio, nel Regno delle Due Sicilie e nel Ducato di Mantova, dove viene progettata la prima casa antisismica del mondo occidentale ad opera di Pirro Ligorio. Aggirandosi tra le rovine di Ferrara colpita dal terremoto nel 1570, l’architetto è il primo ad affrontare il tema della sicurezza abitativa.

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Con l’Italia unita entra in vigore lo Statuto Albertino, adottato dal Regno di Sardegna nel 1848. Per la loro natura geologica Piemonte e Sardegna non sono regioni sismiche, di conseguenza, in tutti gli Stati annessi al Piemonte vengono abolite le norme relative alle prescrizioni edilizie antisismiche. Rimane, nel nuovo ordinamento unitario, la “tradizione” ingegneristica idraulica sviluppatasi nei territori del nord per il controllo dei fiumi.

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Soccorrere le popolazioni colpite da un’emergenza non è compito prioritario dello Stato: gli interventi sono principalmente affidati ai militari e considerati opere di beneficenza. Anche durante l’alluvione di Roma nel dicembre del 1870, a offrire i primi soccorsi sono le truppe dell’Esercito che due mesi prima avevano conquistato la città con la Breccia di Porta Pia.

\n

Il quadro legislativo post-unitario è frammentario e poco organico, limitandosi a prevedere interventi in seguito a particolari contingenze e calamità o per specifiche materie. Tutti i provvedimenti urgenti adottati per fronteggiare le emergenze nell’immediato trovano il loro fondamento normativo nel potere d’ordinanza concesso all’autorità amministrativa dalla Legge n. 2359 del 25 giugno 1865. In caso d’emergenza, prefetti e sindaci possono disporre della proprietà privata.

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In caso di calamità sono mobilitati Esercito e Forze dell’ordine, che accorrono per primi sul luogo dell’evento. L’iter di gestione delle emergenze è rigido e codificato e comincia solo nel momento in cui la notizia del disastro arriva ufficialmente sul tavolo del Presidente del Consiglio, che svolge anche funzioni di Ministro dell’Interno.

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Il dispaccio parte dalla fitta rete di prefetture presenti sul territorio e può arrivare dopo ore, giorni o settimane dall’evento. Le emergenze sono considerate nazionali solo se colpiscono obiettivi strategici per la viabilità e le strutture di pubblica utilità. Valutato lo scenario, si mobilitano i reparti militari più vicini alla zona colpita. In maniera spontanea e non coordinata si attivano anche soccorritori volontari, enti religiosi e associazioni che affiancano il lavoro dell’esercito.

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Nel 1906 vengono emanate disposizioni su eruzioni vulcaniche, frane, alluvioni, mareggiate e uragani.

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Foto: Immagine da una stampa d'epoca di Piazza del Popolo a Roma dopo l'alluvione del 1870

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Prima dell’Unità d’Italia l’organizzazione dei soccorsi è differenziata Stato per Stato. In occasione di grandi emergenze, come il terremoto della Val di Noto del 1693 e il terremoto in Calabria del 1783, le autorità centrali nominano un commissario con poteri eccezionali. A livello legislativo, esistono già norme antisismiche nello Stato Pontificio, nel Regno delle Due Sicilie e nel Ducato di Mantova, dove viene progettata la prima casa antisismica del mondo occidentale ad opera di Pirro Ligorio. Aggirandosi tra le rovine di Ferrara colpita dal terremoto nel 1570, l’architetto è il primo ad affrontare il tema della sicurezza abitativa.

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Con l’Italia unita entra in vigore lo Statuto Albertino, adottato dal Regno di Sardegna nel 1848. Per la loro natura geologica Piemonte e Sardegna non sono regioni sismiche, di conseguenza, in tutti gli Stati annessi al Piemonte vengono abolite le norme relative alle prescrizioni edilizie antisismiche. Rimane, nel nuovo ordinamento unitario, la “tradizione” ingegneristica idraulica sviluppatasi nei territori del nord per il controllo dei fiumi.

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Soccorrere le popolazioni colpite da un’emergenza non è compito prioritario dello Stato: gli interventi sono principalmente affidati ai militari e considerati opere di beneficenza. Anche durante l’alluvione di Roma nel dicembre del 1870, a offrire i primi soccorsi sono le truppe dell’Esercito che due mesi prima avevano conquistato la città con la Breccia di Porta Pia.

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Il quadro legislativo post-unitario è frammentario e poco organico, limitandosi a prevedere interventi in seguito a particolari contingenze e calamità o per specifiche materie. Tutti i provvedimenti urgenti adottati per fronteggiare le emergenze nell’immediato trovano il loro fondamento normativo nel potere d’ordinanza concesso all’autorità amministrativa dalla Legge n. 2359 del 25 giugno 1865. In caso d’emergenza, prefetti e sindaci possono disporre della proprietà privata.

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In caso di calamità sono mobilitati Esercito e Forze dell’ordine, che accorrono per primi sul luogo dell’evento. L’iter di gestione delle emergenze è rigido e codificato e comincia solo nel momento in cui la notizia del disastro arriva ufficialmente sul tavolo del Presidente del Consiglio, che svolge anche funzioni di Ministro dell’Interno.

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Il dispaccio parte dalla fitta rete di prefetture presenti sul territorio e può arrivare dopo ore, giorni o settimane dall’evento. Le emergenze sono considerate nazionali solo se colpiscono obiettivi strategici per la viabilità e le strutture di pubblica utilità. Valutato lo scenario, si mobilitano i reparti militari più vicini alla zona colpita. In maniera spontanea e non coordinata si attivano anche soccorritori volontari, enti religiosi e associazioni che affiancano il lavoro dell’esercito.

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Nel 1906 vengono emanate disposizioni su eruzioni vulcaniche, frane, alluvioni, mareggiate e uragani.

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Foto: Immagine da una stampa d'epoca di Piazza del Popolo a Roma dopo l'alluvione del 1870

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Il 14 dicembre 1991, con l'apertura di una frattura eruttiva alla base del cratere di sud-est, ha inizio la più lunga eruzione dell’Etna del XX secolo: 473 giorni per oltre 300 milioni di metri cubi di lava. Il fiume lavico arriva a mettere a rischio l’abitato di Zafferana Etnea. 

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Nella notte tra il 13 e il 14 dicembre 1991, con l'apertura di una frattura eruttiva alla base del cratere di sud-est, ha inizio la più lunga eruzione dell’Etna del XX secolo: 473 giorni per oltre 300 milioni di metri cubi di lava. Il fiume lavico arriva a mettere a rischio l’abitato di Zafferana Etnea.

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Dai primi giorni di gennaio e sino al mese di maggio del 1992, il Dipartimento della Protezione Civile, con il supporto scientifico del Gruppo Nazionale di Vulcanologia del Consiglio Nazionale delle Ricerche e della Commissione Grandi Rischi e il contributo delle strutture operative, avvia una serie di interventi diversificati e complessi, alcuni dei quali mai tentati prima su di un vulcano in eruzione. Tra questi, un argine alto 20 metri per rallentare il corso della colata e avviare ulteriori misure protettive.

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L’azione si rivela efficace e per due mesi il fronte lavico rallenta. Quando il bacino si riempie di lava, tracimando sempre in direzione di Zafferana Etnea, si decide di \"dirottare\" la colata in un percorso artificiale attraverso il lancio di blocchi di cemento e l’uso di esplosivi. L’operazione complessiva riesce. L’ultimo flusso attivo è osservato la mattina del 30 marzo 1993.

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Foto: Particolare della colata lavica dell'Etna dei primi anni Novanta / Stato Maggiore dell'Esercito

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Nella notte tra il 13 e il 14 dicembre 1991, con l'apertura di una frattura eruttiva alla base del cratere di sud-est, ha inizio la più lunga eruzione dell’Etna del XX secolo: 473 giorni per oltre 300 milioni di metri cubi di lava. Il fiume lavico arriva a mettere a rischio l’abitato di Zafferana Etnea.

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Dai primi giorni di gennaio e sino al mese di maggio del 1992, il Dipartimento della Protezione Civile, con il supporto scientifico del Gruppo Nazionale di Vulcanologia del Consiglio Nazionale delle Ricerche e della Commissione Grandi Rischi e il contributo delle strutture operative, avvia una serie di interventi diversificati e complessi, alcuni dei quali mai tentati prima su di un vulcano in eruzione. Tra questi, un argine alto 20 metri per rallentare il corso della colata e avviare ulteriori misure protettive.

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L’azione si rivela efficace e per due mesi il fronte lavico rallenta. Quando il bacino si riempie di lava, tracimando sempre in direzione di Zafferana Etnea, si decide di \"dirottare\" la colata in un percorso artificiale attraverso il lancio di blocchi di cemento e l’uso di esplosivi. L’operazione complessiva riesce. L’ultimo flusso attivo è osservato la mattina del 30 marzo 1993.

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Foto: Particolare della colata lavica dell'Etna dei primi anni Novanta / Stato Maggiore dell'Esercito

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